Spazi bianchi da riempire

L’importanza di chiamarsi Contesto

Basta prendere un cactus e metterlo al Polo, o dipingere la stessa cattedrale sotto la luce sempre diversa delle varie ore del giorno per rendersene conto. Tutto quello che ci circonda ci influenza, più di quanto a volte ci piaccia ammettere: è una spinta subdola. I dieci piccoli indiani si trovano tutti insieme nello stesso posto e nella situazione, ma ognuno reagisce e ne ricava qualcosa di diverso.

Senza arrivare ad un’isola con un assassino a piede libero, basta la differenza tra pubblico e privato, la maschera che il contesto impone di indossare di volta in volta. Un travestimento che oscura la faccia reale e costringe a salti mortali in nome dello stare insieme. Non è necessariamente un male: l’invito ad essere sé stessi in ogni circostanza farebbe più danni che altro, all’improvviso cadrebbe quella serie di regole utili a mettere una barriera tra quello che c’è dentro e il resto del mondo. Una piccola catastrofe che farebbe scappare gran parte delle persone le une dalle altre, come tanti appestati della propria, vera personalità. Succede quando si dice sempre quello che si pensa, come fanno i matti: il giudizio è implacabile.

A volte, però, il peso di quella stessa maschera si fa sentire.

Essere sé stessi, più che uno slogan o un diritto, è un privilegio: una fortuna da condividere con quei pochi in grado di vederci come gli scarafaggi appena svegliati, nel nostro letto, prima di mettere il vestito buono.

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